di Andrea Moi e Giulia Zucca
Uomo-donna, Uomo-uomo, Donna-donna, Yin-Yang, 0-1, tutti concetti che parrebbero ricondurre al dualismo, descritto da Thomas Hyde come sintesi di due principi tra loro inconciliabili (1), religioso.
Il dualismo è un’argomentazione complessa ma alquanto sterile quando viene utilizzata per descrivere i generi sessuali.
I dualismi della nostra storia sono ampiamente superati, per togliere ogni dubbio vorrei citarne alcuni: mamma o papà, mente-corpo, onda-particella, la meccanica quantistica e la relatività generale, Bruce Banner e l’incredibile Hulk, carne o pesce, realtà corporea o mondo delle idee, verità o matrix, mondo materiale o mondo spirituale, ecc. Siamo certi che alcune persone chiedano ancora ai propri figli o alle proprie figlie se preferiscono il papà o la mamma così come altre credono che sia meglio essere Hulk perché lui è più forte. Crediamo che sia maggiormente utile confrontarsi con chi sta superando o ha già superato il muro del dualismo a favore di quello che Keeney definisce un modello di pensiero basato su e/e, piuttosto che uno basato su o/o (2).
“Donne non si nasce, lo si diventa”, ha detto Simone de Beauvoir (3) e il dibattito sulle differenze tra “persona”, “genere” e “sesso” divampa nei social sotto le forme di confronti sui diritti, sul linguaggio, sul lavoro, sull’educazione e tanti altri definendolo innegabilmente come uno dei topic di questa epoca.
Come società sembra che vogliamo trovare una soluzione a tutti i costi. Definire questa cosa del sesso e del genere e non pensarci più! Perché a noi non piacciono le cose non definite o poco definite e vogliamo avere la sensazione che le nostre conoscenze siano “sotto controllo”. Tendiamo a non dare peso a quanto poco sappiamo della realtà che ci circonda, dello spazio attorno a noi, del nostro corpo e della nostra mente (ammesso che siano analizzabili separatamente). Passi tutto, ma la definizione del genere quello no, quella deve essere ben definita.
La distinzione di due sessi biologicamente determinati è culturalmente e socialmente radicata, tuttavia, non trova riscontro nei risultati delle ricerche biologiche e genetiche, nelle quali più che come due categorie separate, femminile e maschile, la distinzione è rappresentata come due dimensioni collocate ai poli di un continuum; l’intersessualità ne è un esempio eclatante (4).
Un contributo interessante in questo senso è stato dato dall’APA, che ha proposto, per ovviare al binarismo, un tipo di linguaggio che spinge all’inclusione meno rigido e rispettoso delle diversità (5).
Anche per quanto concerne il genere, le persone si differenziano collocandosi in punti soggettivi del continuum dell’identità di genere. Ogni persona ha una sua unica e particolare configurazione la cui espressione può anche variare nel breve termine o nell’arco della vita. L’identità di genere è una personale creazione che scaturisce dalla soggettiva integrazione, sul piano psicologico, degli elementi biopsicosocioculturali che comporta un’ampia varietà anche tra persone cisgender (6).
Abbiamo bisogno delle etichette perché ci permettono di orientarci (con economia) nel mondo e sapere subito cosa abbiamo davanti. Viviamo in un mondo complesso e questa è la soluzione che abbiamo trovato per semplificarlo, ma sbagliamo in continuazione e incontriamo numerosi bias che non fanno altro che rendere impossibile la nostra comunicazione.
L’errore si esplicita quando, con le nostre euristiche, costruiamo un’idea rigida di cosa siano donne e uomini e attribuiamo loro caratteristiche stereotipiche, formuliamo attribuzioni di valore e sviluppiamo atteggiamenti personali rispetto ad essi. In questa concatenazione di feedback tra le nostre aspettative e gli stimoli cui siamo sottoposti, scegliamo di distinguere l’altro e agiamo nei suoi confronti in base a pregiudizi e discriminazioni.
Questo passaggio, dall’attribuzione al comportamento, ci porta ad agire diversamente sulla base del percepire l’alterità come prevalentemente femminile o maschile. Questo perché attribuiamo alcuni ruoli alle donne e altri ruoli agli uomini. Nel momento in cui ci relazioniamo con altre persone, pare sia importante sapere se sono uomini o donne perché indirettamente stiamo cercando le istruzioni su come è più opportuno che noi ci comportiamo con l’altra persona, ignorando che stiamo cercando di confermare un nostro pregiudizio rispetto a quella situazione ma non di certo come quella persona attenderebbe di essere considerata, visto che è una “realtà inconoscibile”.
Non è solo una questione di cosa percepiamo ma anche di come noi percepiamo noi stessi in relazione alle altre persone.
Il “genere” è un prodotto culturale e contemporaneamente riguarda un aspetto nucleare dell’identità. Il fatto che tra la moltitudine delle soggettività umane sia socialmente accettata un’unica sua declinazione, lo appesantisce di attese sociali culturalmente radicate che rendono a volte impossibile la convivenza tra esseri umani.
Crediamo che queste costruzioni sociali meritino una ristrutturazione del concetto di genere, o forse quello che andrebbe ristrutturato è il concetto stesso di famiglia (origine della nostra società e radice di molti dei nostri pregiudizi), che vede al suo interno, come idea socioculturalmente più accettata, persone con diverse funzioni sociali che mai si integrano (nel contenuto, e nei ruoli) e che faccia della diversità il suo unico modo di rappresentarsi.
Le diversità sono il pane quotidiano della nostra società e vanno difese in tutti i modi. Quando però i ruoli diventano la sostituzione della complessità della persona e vengono utilizzati come etichette quali: donna=madre=casalinga, uomo=padre=lavoratore, il pregiudizio “peccato originale” diventa uno dei maggiori fattori di rischio della violenza di genere e della violenza domestica. La lotta contro il dualismo (binarismo di genere) va condotto, prima di tutto, nelle famiglie.
Il secondo luogo della lotta è probabilmente quello politico-culturale. Il concetto di “genere” ha avuto un ruolo importante nella politica femminista degli anni ‘70 e, a partire da quel dibattito politico si è spostato prima al suo cappello socio-culturale, poi al cappello antropologico per assestarsi ancora meglio all’interno di un argomento che pare accoglierlo alla perfezione, ossia la Sociologia (e la Psicologia Sociale).
Lo studio della “violenza di genere” è una materia nuova, nonostante faccia parte della storia dell’umanità da secoli.
Il dibattito è fondamentale e in questo senso in questo momento storico, anche grazie ai social, c’è molto confronto sui temi gender. Oggi lo scontro e il conflitto può essere identificato come unica possibilità di crescita culturale. Il passaggio attraverso il momento rivoluzionario è assolutamente da considerarsi un bene.
L’ultimo aspetto che vogliamo analizzare è quello prettamente socio-culturale. Il binarismo di genere è un problema. Non lo è solo perché non tiene conto della poliedricità del genere riducendolo a due possibilità (quella giusta o quella sbagliata), lo è in quanto frutto di un’egemonia culturale. È stato preso come prototipo di unico essere umano valido il modello maschile eteronormativo (maschio bianco, eterosessuale, cisgender, macho, che mangia le bistecche, gioca a calcetto, ecc… a cui, tra l’altro, sono preclusi tutti quegli atti empatici, emotivi, emozionali che dovrebbero di contro essere dominio della donna) e tutte le altre possibili espressioni di genere sono state etichettate come ascrivibili al femminile e non accettabili o come “deviazioni” dal modello valido.
Su questa base, alla nascita viene attribuito alle persone un sesso biologico dal quale derivano, in maniera rigidamente lineare, una serie di attese sociali relativamente alle dimensioni dell’identità, dell’espressione, del ruolo di genere ed orientamento sessuale.
Tutto ciò funziona a livello iperuranio, nel mondo delle idee. Nel mondo tangibile nulla è binario, tutto si colloca in un continuum. A partire dal sesso, di cui la natura ne offre più di due (7).
Le espressioni di genere che fuoriescono dal modello maschile eteronormativo sono altri modi di essere umani a prescindere dal genere nel quale ci si identifica. Lorenzo Gasparrini a tal proposito scrive “ci sono tanti modi diversi di essere uomini – e sono tutti meno violenti del patriarcato” (altro fattore di rischio della violenza di genere, che in questa sede non approfondiremo).
Il modello di espressione dominante è limitante per gli uomini stessi che, auto-confinandosi dentro uno stereotipato modello di mascolinità tossica, sono privati della possibilità di sperimentarsi in altre forme umane quali, ad esempio, la vulnerabilità. La vulnerabilità che accomuna tutti gli esseri umani, tranne il modello “veri uomini” che, al netto dei privilegi, non sembra poi più essere così conveniente. Il prezzo è elevato: adeguarsi a caratteristiche precostituite rinunciando alla scoperta della propria umanità, della propria diversità, della propria individualità.
Pensare il mondo in termini binari probabilmente semplifica ed economicizza la realtà, ma allo stesso tempo crea limiti, confini e violenza tra le persone; limiti identitari, limiti al pensabile, riduce la capacità immaginativa e nega dignità. Avere parole per descrivere le diversità, per ciascuna variazione elettromagnetica, apre la gamma dello spettro visibile dell’arcobaleno.
Socializzati al bianco e al nero, a chi verrebbe in mente di guardare altri colori? Il rischio è che quando si incontra un colore diverso dai primi due ci si spaventi e lo si neghi. Cosa succede se quel colore è il nostro? Cerchiamo di coprirlo, metterlo da parte, cancellarlo, negarlo (negarcelo) senza integrarlo e riconoscerlo come una parte di noi.
Risultato? Impedirci di conoscerci e scoprire come siamo (e come sono le altre persone).
La prima violenza è dunque nei propri confronti.
Possiamo dire che sia colpa delle etichette utilizzate? o piuttosto dell’atteggiamento umano che ci riserviamo tra noi?
Le parole reificano la realtà. Questo accade non tanto per i suoni emessi quanto per i significati che vi attribuiamo. Sono le nostre attribuzioni a determinare i nostri copioni di comportamento.
Accettare o meno il proliferare di etichette per definire i generi in più modi è una questione di posizione. A tal proposito Paolo Valerio, presidente ONIG, ha aperto una interessante riflessione su come il binarismo di genere rappresenti una gabbia. Talvolta le gabbie costituiscono anche difese, per esempio se si è in mare e si osservano gli squali dall’interno di una gabbia, ma prima o poi bisogna uscire dalla gabbia, respirare e navigare.
Lo stesso discorso si potrebbe estendere alle nuove etichette.
Per questi motivi il focus va sulla promozione del benessere psicosociale.
È arrivato il momento di considerarci persone, o “libere soggettività” come insegna Laurella Arietti (8).
E’ arrivato il momento di lottare e combattere per la definizione di quello che siamo come persone, indipendentemente da come ci sentiamo, dal genere che sentiamo maggiormente nostro o dal genere che amiamo, odiamo, con il quale ci confrontiamo o non, che abbiamo allo specchio o fuori dalla finestra.
Il punto non è mai il nostro genere o quello delle altre persone. Il punto è e deve essere che persone siamo e che persone vogliamo essere noi oggi.
Hyde, T. (1700)
Keeney, B. P., & Keeney, B. P. (1985).
De Beauvoir, S. (1997)
Lee et al, 2006
https://www.apa.org/practice/guidelines/transgender.pdf
Graglia, M. (2019)
Fausto-Sterling, 2000
https://www.globalproject.info/it/in_movimento/il-movimento-trans-diventa-movimento-delle-libere-soggettivita-transfemministe/22412