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 I mostri non esistono

di Susanna Valleri (Psicologa)

Quando  ero piccola avevo paura di qualunque cosa: avevo paura del buio, avevo paura che qualcuno potesse uscire da sotto il letto e mangiarmi, avevo paura dei mostri. Crescendo ho capito che i mostri non esistono, perlomeno non esistono nel senso stretto del termine.
 Esistono persone che fanno cose mostruose, esistono persone che agiscono in maniera violenta, esistono persone che conoscono solo il linguaggio del più forte, ma queste sono persone e non sono mostri.
 I mostri stanno nelle favole ma le favole sono solo fantasiose storie per far capire ai bambini che esiste la malvagità, la cattiveria.

Oggi ho letto un articolo su un giornale in cui si parla di autori di violenza e si argomenta su di loro attraverso dei termini che sono molto lontani dalla realtà.
 Questi mostri, aguzzini sono uomini che utilizzano la violenza per esprimersi, per farsi rispettare, per riconquistare un potere che stanno perdendo. Mi piacerebbe fossero mostri, sarebbe molto più semplice per tutti noi riconoscerli tali.
 Invece sono figli, sono padri, sono mariti, sono fratelli, sono fidanzati, sono persone. Definirli mostri allontana l’idea di poterli aiutare a cambiare, allontana l’idea che si possa cambiare.
 Se davvero vogliamo cambiare la mentalità dobbiamo imparare ad usare i termini giusti, dobbiamo imparare a nominare le cose con loro nome.
 Tutto questo discorso non significa che sia facile capire quello che passa nella testa di questi uomini, di sicuro non significa trovare una giustificazione a quello che fanno che è e deve essere condannabile. Ma non significa neanche identificarli con ciò che non sono. Spesso sento definirli malati, patologici; niente di più errato. Se fosse una malattia ci sarebbe una cura e penso che ad oggi forse l’avremmo attuata. La violenza è una modalità comunicativa, è un copione imparato e tramandato.

Uno dei lavori che facciamo al CAM con gli autori è quello di “nominare la violenza”, ossia dargli il giusto sostantivo. Questo serve per riconoscere il fatto e per assumersene la responsabilità.

Perché questo esercizio non può essere esteso ad ognuno di noi?
 Perché continuiamo a chiamare mostri, uomini che tali non sono?

Loro stessi non si riconoscono mostri, e continuare a definirli così li allontana solo dalla possibilità di assumersi la responsabilità di azioni ignobili. La violenza è una brutta faccenda, è scomoda, è odiosa, è inqualificabile, è incomprensibile ma esiste e dobbiamo farci i conti, ormai tutti i giorni.
 Le donne continuano a morire e a essere picchiate, ad essere violentate, ad essere sfruttate, e questo avviene perché nessuno di noi si prende la responsabilità di capire che la maniera giusta per affrontare questa tragedia è quella di combattere insieme da più fronti: i CAV che aiutano le donne a trovare un luogo sicuro, i CAM che aiutano gli uomini a cambiare e la società tutta che permette il cambiamento senza etichettare e senza usare termini che servono solo a fare notizia, a fare titoli di giornali.
 Nella realtà dei fatti non tutte le donne vittima di violenza si rivolgono ai CAV e il sommerso rischia di essere più numeroso del dichiarato. Inoltre, non tutte le donne denunciano e ciò non aiuta nell’individuazione della violenza. Non tutte le mamme sono capaci di intercettare la violenza nel proprio figlio, anche se oggi avviene più di prima.
 Ma lavorare col singolo non basta. Non basta trovare donne che accompagnino il proprio marito, compagno, figlio nel percorso di cambiamento che i CAM propongono. Il lavoro deve essere capillare. L’informazione deve essere corretta. Le parole hanno un significato e rischiano di etichettare e non di indirizzare. 

Dobbiamo smetterla di piangere le vittime e dobbiamo iniziare ad usare la prevenzione come arma a favore delle donne. Adesso esistono strumenti e professionisti che possono aiutare gli autori di violenza a cambiare ora bisogna capire se la società vuole permettere questo cambiamento

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